“L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è.”
Attraverso queste brevi parole, Paul Klee (1979 – 1940), descrive la sua arte come una delle sole forme capaci di riprodurre l’invisibile, distaccandosi dalla percezione sensibile e primordiale.
Nato da una famiglia di musicisti, madre cantante e padre violinista, Paul Klee, viene fortemente influenzato dalla musica e incomincia a scoprire un’arte fatta di oggetti e colori capaci di rappresentare tutti quegli elementi non percepibili fisicamente all’occhio umano, ma che entrano a far parte della memoria infantile e intrinsecamente legata all’animo.
Nonostante Paul Klee non studiasse la psicoanalisi, fu capace di indagare all’interno di quella regione sconfinata dell’inconscio, ritrovando quel dato uniformante che non solo rappresenta l’infanzia e i ricordi del passato, ma anche capace di collegare l’umanità. Le sue forme s’ispirano certamente alle geometrie e i colori sono legati ad una grafica dell’infanzia e dei giochi ludici, ma non si tratta di non – esperienza o primitivismo forzato, ma piuttosto di una ricerca vera e propria di elementi e simboli invisibili, capaci di essere visualizzati in un determinato modo da più persone.
Il contenuto semantico di una forma muta in base al colore e, nelle opere di Paul Klee, troviamo un attento studio attraverso bozzetti e quaderni di figure diverse che, nelle sue tele, si muovono con un movimento preciso, quasi sincronizzato e guidato talvolta dal pittore stesso, attraverso delle frecce. Le sue tele non trasmettono delle notizie, ma degli impulsi che si collegano con lo spettatore non in modo casuale, ma scavando nella memoria collettiva.
Non c’è da stupirsi dunque che questo interesse per la collettività e il sociale abbia spinto Klee a partecipare in modo fortemente attivo all’interno della scuola del Bauhaus.
In foto: Paul Klee nel suo studio, 1924