I've grown roses in my garden

Galleria Anna Marra ha il piacere di presentare l’ampia personale di Shadi Ghadirian (Teheran, 1974), una delle più grandi fotografe mediorientali del nostro tempo.

Curata da Silvia Cirelli, la mostra propone un percorso culturale prima ancora che artistico, ripercorrendo complesse tematiche da sempre parte integrante del linguaggio lessicale di questa talentuosa interprete. L’Iran dei contrasti e dei paradossi, in bilico fra modernità a tradizione; la riflessione sulla questione femminile; lo spettro di sanguinosi conflitti del passato (come la guerra Iran-Iraq) o ancora le ambivalenze di una costante precarietà sociale divisa fra libertà e censura, sono solo alcune delle rievocazioni che Shadi Ghadirian attraversa con una personalissima impronta espressiva.

 

Già molto nota a livello internazionale e sicuramente una delle figure di riferimento del panorama artistico contemporaneo, Shadi Ghadirian è stata chiamata a esporre in prestigiosi Musei internazionali, che passano dal British Museum di Londra al CCCB di Barcellona, dal Centre Pompidou al Boston Fine Art Museum. Le sue opere, inoltre, vantano l’inclusione in grandi collezioni pubbliche, come quelle del Mumok di Vienna, del LACMA di Los Angeles, del Pergamon Museum di Berlino o del Smithsonian Museum di Washington.

 

Oltre a rappresentare un’inedita occasione per esplorare il percorso artistico di questa celebre interprete, dai primi lavori di fine anni ’90 al suo ultimo progetto presentato in Italia in esclusiva, la personale dal titolo evocativo I’ve grown roses in my garden offre uno sguardo sulla complessa fisionomia sociale iraniana.

Ghadirian si contraddistingue per una cifra stilistica di rara suggestione, capace di proiettare nella dimensione metaforica dell’arte la collisione di tratti distintivi apparentemente opposti: ironia e amarezza, incanto e sofferenza, severità ed evasione. La raffinatezza del suo lessico, strettamente connesso a un’implicita connotazione autobiografica, si traduce in una simmetria creativa audace e incisiva, dove l’estetica dell’allegoria si scopre come costante elemento focale.

 

La memoria collettiva si intreccia a nuove narrazioni, dove l’indagine artistica è molto spesso portata interamente sul corpo, un corpo che si manifesta come fotografia, come rielaborazione del messaggio artistico. Questo avviene sicuramente nel recente progetto Seven Stones (2023) in cui il richiamo di una minaccia che viola l’intimità domestica si materializza sotto forma di ingombrante e intimidatorio masso, un ospite prepotente e indesiderato. Il concetto di costrizione torna anche nella serie Miss Butterfly (2011), scatti in bianco e nero che catturano donne a tessere ragnatele in un’infusa atmosfera di dolente silenzio. Le fotografie, che s’ispirano a un’antica favola iraniana che narra di una farfalla che desiderosa di incontrare il sole cade purtroppo prigioniera nella tela di un ragno, è stata realizzata durante il clima di tensione del post elezioni in Iran del 2010.

L’arte ispirata al reale rimane baricentrica nel progetto Nil,Nil (2008) in cui l’artista introduce il tema della guerra come elemento del quotidiano. Accessori bellici invadono infatti oggetti della sfera familiare, ricordando quanto i conflitti siano parte integrante della vita degli iraniani.

L’esposizione prosegue poi con la celebre serie Like Everyday (2002), fra le sue opere più rinomate, dove donne coperte da chador floreali mostrano al posto del viso moderni utensili da cucina, retaggio di una cultura dalle forti contraddizioni che vive di incoerenze sociali. La questione femminile si riconferma centrale anche nel progetto Be Colourful del 2000, in cui i volti di donne, questa volta più facilmente visibili, osservano lo spettatore da dietro un vetro offuscato e opaco.

L’equilibrio dei paradossi e l’insita coesistenza di opposti si riscontrano già nelle fotografie del progetto Qajar (1998) in cui l’artista ricostruisce le ambientazioni tipiche della Dinastia Qajar, regnante in Iran per circa 150 anni (1794-1925). Agli scenari d’epoca, Shadi Ghadirian aggiunge però alcuni “oggetti proibiti” della modernità – una macchina fotografica, un telefono, cosmetici femminili o degli occhiali da sole – creando una netta collisione scenica, una congenita ambivalenza di fondo: nella complessa struttura sociale iraniana, due realtà convivono quotidianamente.

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