Mercoledì 1° ottobre 2025 la Fondazione Pastificio Cerere presenta Invisibilium, mostra collettiva delle artiste Giulia Apice, Ruth Beraha, Desirè D’Angelo e Chiara Russo, a cura di Giulia Tornesello.
L’esposizione sarà aperta al pubblico da giovedì 2 ottobre a sabato 22 novembre 2025.
Invisibilium è una mostra collettiva che sfida la convenzionale fruizione dell’arte; in un’epoca di eccesso di immagini, di saturazione del visibile, questo progetto si pone come critica al voyeurismo culturale, alla falsa trasparenza del presente.
Il termine Invisibilium è tratto dal titolo di un testo di Aurelio Agostino d'Ippona, De fide rerum invisibilium (La fede nelle cose che non si vedono), un invito allo spettatore a rinunciare allo sguardo compiendo un atto di fede, abitando il non sapere, facendo esperienza di un mistero che non si risolve ma si attraversa.
Nell’opera audio di Ruth Beraha (Milano), Mia Cara, una voce femminile ripete febbrilmente frasi di sottrazione dallo sguardo: “Smetti di guardarmi” e “Non voglio più vederti”. Le due frasi si rincorrono e convergono, attraversando la stanza e rivendicando lo spazio tra opacità e invisibilità. La litania si ripete, accelera e rallenta, e invoca il rifiuto di essere trasformata in immagine. Le voci delle donne rivendicano la produzione autonoma della propria identità in una danza perpetua tra visualizzazione e oblio.
Al suono di Mia Cara che riempie le sale dello spazio Molini - che con le sue pareti ammuffite è mausoleo custode e testimone dello scorrere del tempo - si contrappone il silenzio dell’opera video - realizzata in una delle stanze dei sotterranei della Fondazione - di Desirè D’Angelo (Frosinone), Autoritratto 57, che esplora il gesto della cura come forma primaria di comunicazione umana. Una figura femminile poggia la testa sulle gambe di un uomo, che per ore le accarezza la nuca. La ripetizione, priva di suono, trasforma il gesto in un atto corporeo a metà tra la tenerezza e l’automatismo, tra il conforto e la resistenza. Il dispositivo di visione — un foro attraverso cui lo spettatore può osservare la scena — introduce un filtro percettivo fondamentale: guardiamo da fuori, da una soglia. Riattivando il meccanismo del “guardare senza essere visti”, siamo esclusi dalla piena partecipazione, ma inclusi in un’esperienza archetipica.
Ma la durata trasforma il gesto. Quando la carezza diventa strofinamento, emerge un’altra dimensione: la fatica del prendersi cura, l’usura del gesto ripetuto. Il tempo non è neutro: deforma, logora, ma rivela. Nel gesto che si consuma si intravedono i limiti della funzione genitoriale, ma anche la sua potenza: restare, continuare, toccare.
Perché il gesto tra i due corpi in video — padre e figlia, ma anche protettore e vulnerabile, adulto e infante, umano e umano — attiva una memoria intercorporea che precede la narrazione individuale.
Nello spazio si avverte una tensione emotiva costante data dalle opere di Chiara Russo, Giornali, disposte tra i cunicoli come in una sala d’armi medievale. Le opere consistono di quotidiani cartacei arrotolati trafitti da spine in superficie come a ricordare l’immagine di una mazza chiodata. Questi oggetti ibridi, a metà tra strumenti di informazione e strumenti bellici, mettono in evidenza l’aggressività latente che caratterizza gran parte della narrazione mediatica contemporanea in bilico tra realtà, finzione e spettacolarizzazione. Le immagini e i titoli riportati sui media contribuiscono a una pressione emotiva costante e collettiva, così il giornale si trasforma in oggetto di violenza.
Insieme ai titoli a caratteri cubitali dei quotidiani di Chiara Russo, vengono meno allo sguardo anche le opere pittoriche di Giulia Apice (Frosinone), i cui grandi lenzuoli dipinti sono ripiegati per svelare solo parte del disegno. L’artista rinuncia all’esposizione totale dell’immagine: i soggetti abitano le tele tra drappeggi e trasparenze, si fanno percepire ma non si palesano in comparse scenografiche. Acquistano la possibilità del privato pur restando in pubblico, affermano la propria presenza mantenendo una sacra austerità, propongono ancora una volta allo spettatore un atto di fede nel credere nella loro esistenza nonostante ne sia impedita la vista.