Lost in translation

Lost in translation


Lost in Translation è un foglio nero sul quale ho immaginato di disegnare con un pennarello bianco.  Il nero è la negazione del colore, il limite assoluto oltre il quale non c’è più nulla: il no, in opposizione al sì del bianco. Il bianco è il colore con il quale si scrivono le storie. Il nero ne è la conclusione. Bianco e nero sono due estremi. Alfa e omega, inizio e fine, conscio e inconscio. Il bianco e il nero coesistono. Come il Tao sono in divenire e in osmosi. Nulla esiste senza la loro reciproca relazione.
I soggetti che ho ritratto si muovono dentro un ambiente assolutamente indefinito ed astratto, vivono la vita di tutti i giorni tra il bianco e il nero dell’esistenza. È come se fossero tanti Antoine Roquentin, il famoso protagonista de La Nausea di Sartre, che con straniante analiticità osserva il mondo circostante scomponendolo in frammenti essenziali di pura materia, consapevole, tuttavia, dell’impossibilità di attribuire un senso all’esistenza. In questa scomposizione l’io si scopre solo, scisso anche dal proprio corpo, e le cose perdono la loro naturalezza come quando, ripetendo una parola per molte volte, d’improvviso sembra divenire anomala, sembra perdere di senso senza avere più alcun significato.
Ogni soggetto racchiude in sé un mondo. L’uomo è un universo singolare che mette in atto la propria epoca, la interpreta, la realizza. In ogni istante della propria vita si ritrova a dover tradurre questo suo cosmo nel mondo reale, perdendo inevitabilmente una parte di sé.
Cambiando colori. Saturandoli o sfumandoli. In questi passaggi di senso il mondo risulta spesso inesplicabile e, di conseguenza, meno condivisibile. Ci si sente smarriti,
immobilizzati nel proprio relativismo. Ognuno di noi vive un senso di straniamento nei confronti dei mondi circostanti, immerso in una specie di blob nero-pece. E in questa immersione le forme si astraggono, le strutture perdono sostanzialità. I corpi riflettono ombre come nell’immaginario fotografico di Lost in Translation: impenetrabile teatro urbano dove i sensi vengono assorbiti in un’atmosfera atemporale, simile a una pozza viscosa che rende ogni cosa trascorsa. La vita è un incessante e incontrastabile fluire che immagina solo il presente in un momento già passato. Nella consapevolezza dell’irreversibilità del tempo si avvera la smitizzazione del mondo, delle cose e del sé.
Con Lost in Translation ho dato forma alla mia idea antropologica e iconografica di «modernità liquida», per dirla con Zygmunt Bauman, in cui l’unica costante è il cambiamento e l’unica certezza è l’incertezza. Ho cercato di mettere bianco su nero l’immagine passeggera, mutevole e fantasmatica dell’uomo di oggi. La storia viene da sé. Ma come diceva Edward Hopper: «se potessi esprimerlo con le parole non ci sarebbe nessuna ragione per dipingerlo».
Allora lo fotografo tra il bianco e il nero. Lì dove accadono i colori.

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