«Non possiamo considerare noi stessi senza rapporto con l’altro», affermava Edmund Husserl, che considerava “l’essere in relazione” come condizione costitutiva dell’essere umano, superando ogni forma di soggettivismo e di oggettivismo. La coscienza soggettiva è sempre “coscienza di…”, dell’altro e del mondo. «Siamo in relazione con un mondo circostante comune - spiegava Husserl - siamo entro una collettività personale: le due cose vanno insieme»
(Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica. Libro II, 1952).
Questi concetti fondanti della fenomenologia sono alla base della filosofia moderna e mettono in luce che la condizione umana non può prescindere dalla relazione. Come viviamo questa relazione?
Questa è la domanda all’origine delle opere che espongono Caterina Pini e Saverio Feligini, raro duo artistico complementare, consolidatosi negli anni attraverso il confronto costante all’interno dello stesso atelier e la realizzazione sia di lavori individuali, sia a quattro mani.
Pini considera la relazione con l’altro in una dimensione esistenziale intimistica. Feligini apre l’obiettivo sulla “collettività personale” nel “mondo circostante comune” delle metropoli odierne. Due sguardi sulla relazione con l’altro accomunati da una profonda riflessione.
“Vorrei fare una serata muta” - Caterina Pini
Caterina Pini è un’artista poliedrica che sorprende per la varietà dei suoi soggetti e la capacità di spaziare dal disegno alla pittura, alla scultura, con i materiali e le tecniche più diverse. I suoi lavori sfuggono ad ogni etichetta per la loro “incostanza” e la coesistenza di più stili. Pini produce molto, per poi tagliare, cancellare, cestinare finché la sua ricerca non approda a un’idea che poi decide di sviluppare.
Questo allestimento nasce da una selezione di opere precedenti che si aggiungono a una nuova serie. Immaginato a lungo, vuole raccontare una storia. Per questo l’artista ha abbinato alle opere delle note scritte che accompagnano l’osservatore durante la visita.
Il rapporto con l’altro è tanto inevitabile quanto difficile. È faticoso capire e farsi capire; la tentazione è di lasciar perdere, ma non si può. Ecco allora la necessità di fermarci per ribaltare, per quanto possibile, la nostra prospettiva, che spesso ci tiene intrappolati e riuscire finalmente a parlare con chi ci sta di fronte.
È ciò che vediamo in “Messa in scena”: una piccola scultura di argilla colorata, scalfita da qualche graffio che la rende vitale e ricorda vagamente due figure umane senza volto che paiono interrogarsi senza avere risposta. Lo iato comunicativo tra le due viene restituito dall’artista negli scatti fotografici del corpo scultoreo da diversi punti di vista e sotto una luce sempre nuova, come a suggerire che un incontro si può trovare. La difficoltà nella comunicazione può essere risolvibile riconoscendo nell’altro, per analogia, un nostro “alter ego” con le nostre stesse esigenze e difficoltà, la cui visione possiamo accogliere senza giudizio pur nella sua complessità.
Un’altra via di comunicazione percorribile viene tracciata in “Tredici buste”. Buste bianche dalla scura gola profonda, sbertucciate dalle dita nervose che le hanno aperte; celano parole impossibili da pronunciare perché troppo spesso urlate; giungono tuttavia al destinatario sotto forma di lettere, quindi rimodulate: l’inchiostro e la scrittura le rendono meno dure e più ragionate, offrendo a chi le legge la possibilità di comprenderle. Si tratta di un’opera simbolica, che unisce i due poli opposti del vissuto della coscienza che si dibatte tra incomunicabilità e possibilità reale di comunicazione autentica.
Terza via suggestiva è quella di “Radar”, che ci sbalza nella visione onirica di una tecnologia tanto avanzata da permetterci di captare le frequenze del sentire altrui e di sintonizzarci con esse in modo da vibrare all’unisono, in perfetta armonia. In fondo è il sogno di Pini: se in un’epoca iperconnessa viviamo il paradosso dell’estrema difficoltà di comprendersi, perché non immaginare un “medium” tecnologico fantascientifico che venga in nostro soccorso?
“Check point”: paesaggi urbani contemporanei - Saverio Feligini
Visioni di metropoli contemporanee ci risucchiano nel vortice delle vetrate riflettenti dei loro infiniti grattacieli; il pesante cemento dei grandi palazzi ci inghiottono fino a farci sparire. Sotto gli occhiali scuri mille occhi invisibili ci fissano e bulbi oculari digitali ci seguono costantemente come “il Grande Fratello” di George Orwell, stringendoci in una morsa che ci toglie il fiato e ci rende nudi. L’essere umano è visto, ma non si vede. Come nei paesaggi metafisici di De Chirico, la città è sospesa e inanimata.
Saverio Feligini costruisce con mirabile minuzia e gusto compositivo i suoi collage, selezionando con un metodo libero ma rigoroso i suoi ritagli da riviste patinate. Dispone le sue figure su vari supporti in legno, trattati e rivestiti in carta leggera, in modo da avere un sostegno solido su cui poter farle scivolare in un gioco di accostamenti e sovrapposizioni che muta giorno dopo giorno, finché non trova il giusto equilibrio. Solo allora, dopo innumerevoli spostamenti e riconfigurazioni, passa alla fase finale di incollaggio. È un lavoro lungo, fine, sottile; un procedimento artistico che va di pari passo con l’intuizione e lascia spazio alla riflessione introspettiva sulla vita nelle metropoli di oggi. La composizione è perfettamente bilanciata, vuoti e pieni sono al loro posto, pesi e sostegni si compensano, le forze si equilibrano secondo criteri che ricordano le Città Ideali del Rinascimento. Tuttavia, questi luoghi non sono studi, ma rappresentazioni immaginarie del vissuto di coscienza dell’uomo contemporaneo che abita le immense metropoli di oggi: fredde, soverchianti, violente.
Laddove vi è espansione fuori misura e “la misura d’uomo” si perde, anche l’uomo è perduto. I palazzi ruotano vorticosamente attorno a un centro fino a frantumarsi alle estremità per l’azione della forza centrifuga. Difficile pensare di costruire relazioni in spazi sovradimensionati che ci controllano e ci schiacciano. Il senso della comunità che fa di una città una polis, con una sua precisa identità, è svanito nella vastità incommensurabile delle nostre metropoli, in cui le anime vagano guardinghe, chiuse nelle loro forzate routine. Dobbiamo allora far ritorno alla natura per ritrovare la nostra umana dimensione? Per ristabilire un rapporto con noi stessi e con l’altro? Sappiamo bene che ciò non è possibile. Non si può mai tornare indietro.
Queste visioni di metropoli che ci assorbono nella vertigine del loro buco nero, da un lato sembrano escludere l’umano. Dall’altro, di “Umano, troppo umano” – evocando Friedrich Nietzsche - mantengono l’armonia compositiva e tendono a una loro originale perfezione, mostrando che i due poli non solo sono tragicamente costretti a convivere, ma in fondo sanno anche “con-vivere”.
Caterina Majocchi - critico d’arte e counselor - Open Studio di Caterina Pini e Saverio Feligini, Roma, RAW 2025.
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