Figlio d’arte, Marco Tamburro inizia la sua formazione tra architettura, scenografia e arte, prima a Perugia, dove è nato, poi a Milano e quindi a Roma dove ora vive e lavora. E’ qui che inizia la sua carriera. Partecipa a molte mostre, personali e di gruppo tra gallerie e musei, sempre bene accolte. L’ultima al Maxxi.
I lavori che ora espone a Strati d’Arte testimoniano la sua evoluzione tematica e pittorica che nasce dall’immaginario del cartoon d’autore, da Gian Luigi Bonelli a Hugo Pratt, a Tiziano Sclavi, senza dimenticare le sorelle Giussani, e dalla spazialità della sua esperienza nella scenografia e nella pubblicità. Dedica citazioni generose al graffitismo, anche quello più brutale e invasivo. In questo gruppo di opere Tamburro erge un muro/mura con cui divide lo spazio pittorico e filosofico tra il conosciuto e il non conosciuto, tra ciò che è accaduto e quello che accadrà, tra l’inevitabile e l’aspirazione. Il di qua contiene tutto il chiasso del meltingpot urbano (o del vissuto) frustato da cavi tesi e geroglifici imbrattatori, misti, con arguta citazione di Mimmo Rotella, a brandelli di poster cinematografici, pubblicità, clown e materiali di scarto o d’uso.
Oggetti fuori dimensione isolandosi si fanno protagonisti come memorie di un vissuto: una poltrona, due uomini che sembrano ballare, i Blues Brothers, un astronauta, Pinocchio, una donna seducente. Il muro/mura, spezzettandosi verso l’alto, traccia la demarcazione tra quel baccano animato da contrasti cromatici che così bene ne descrivono i rumori, e il poi.
Di là c’è il silenzio, la luce, il non definito, una speranza, un’astrazione, un momento di riflessione, la tela che attende di essere dipinta. Ombre cinesi appaiono, una, due e poi un altro mondo: funamboli, il pensatore di Rodin, il riflesso di pinocchio, la bugia delle nostre vite cittadine, altalene, bambini sospesi su seggiolini di un luna park, un tuffatore. Silhouette che ci attraggono e che nel loro mutismo ci invitano a oltrepassare quel muro sberciato. Nell’osservare quelle scene possiamo trovare noi stessi, ricucire memorie, essere melanconici o anche sereni. L’artista ci guarda e aspetta la nostra scelta invitandoci ad oltrepassare insieme quella “siepe”, una forza che pone limiti alla nostra conoscenza, ma che ci permette di spaziare con la fantasia alla ricerca di opportunità da cogliere, come suggeriva Leopardi nel suo Infinito.
Angelo Bucarelli