In direzione OSSIDATA e contraria

Sculture-assemblage di Gabriele Mannarino. A cura di Daniele Poccia.

Le sculture, prevalentemente in metallo, sono ottenute ricomponendo oggetti, o parti di essi, provenienti dall’uso quotidiano e poi dismessi come rifiuti. Come spiega l’artista, le ricomposizioni sono state suggerite dalle caratteristiche degli elementi utilizzati, selezionati in base alla forma o agli effetti del tempo sulla loro superficie. Il processo di ossidazione del metallo esposto agli agenti atmosferici è analogo ai processi che permettono la sopravvivenza di tutte le forme di vita aerobie sulla terra - inclusi gli esseri umani - ed è quindi segno del fluire del tempo e della vita. Le caratteristiche di questo fenomeno come la rugosità della superficie, le fratture e la colorazione sono frutto di specifiche condizioni legate sia allo stato iniziale del manufatto, sia all’ambiente a cui questo è stato esposto: è quindi possibile dire che ciascun elemento porta fisicamente con sé una propria specifica storia e, tramite l’azione artistica di ricomposizione, ne inizia un’altra.

Si tratta dell’arte, della non-arte, dell’anti-arte dell’assemblage, per dirla con le parole dello storico curatore del MoMA, William Seitz, che così ha definito molte pratiche eterodosse il cui scopo non è suscitare l’ammirazione per la destrezza dell’artista, ma divertire, infastidire, sconcertare, disorientare, far riflettere.

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Sono presenti rampe di accesso, ma il bagno non è accessibile alle persone disabili.

Per visitare la mostra nelle giornate successive alla Rome Art Week è gradito il  contatto via email. 

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Dalla periferia al centro - L’arte composizionale di Gabriele Mannarino

La collezione di sculture assemblate, dirottate e proposte da Gabriele Mannarino si basa su una pratica di salutare spaesamento: né figurative, in senso stretto, né astratte, in senso proprio, la loro intensità specifica si sprigiona grazie alla perlustrazione sistematica di una zona mediana tra questi due registri. Perché se ogni oggetto utilizzato «ha un suo vissuto» e una sua «anima», come si esprime lo stesso artista, l’unico modo per onorarli è esporli come tali, renderli immediatamente accessibili, attraverso il recupero di materiali altrimenti destinati alla pattumiera, dalla scaturigine necessariamente spuria. Non illudere dunque il fruitore che l’opera sia spuntata fuori dal nulla, non costruire ad arte l’arte, ma reimmetterla nel tessuto sconfinato di realtà con cui tutte e tutti traffichiamo giornalmente, ivi compresi i soggetti non-umani. L’opera di Mannarino si ritrae allora dalla sfera dall’estetico subito dopo esserci entrata. Come un animale agile ma reticente, essa fa capolino nello spazio bifronte di un’esistenza che simula di non esistere, di un’arte, insomma, che mira a nascondere l’arte, non «per sembrare natura», come diceva il sommo Kant, ma per ridiventare storia, che della natura è in fondo il vero e unico significato, quel che riconnette il nostro modo di stare al mondo a quello degli altri esseri che parimenti lo abitano in numero indefinito. Si veda dunque la serie dedicata al tema tristemente attuale della Violenza domestica, o il richiamo mai sopito alla controcultura punk, con Punk's not dead. Si osservi con attenzione la sequela di strani fiori, quasi di estrazione extra-terrestre (da Fallo! all’Apicoltrice, dal Soldato di guardia all’Entaglement), che campeggiano nella selezione congegnata da Mannarino. La strategia adottata fa leva non sulla ricombinazione del preesistente (immancabilmente destinata a lasciare intatto ciò che ricombina), ma sulla sua ricomposizione e, quindi, sull’articolazione dei non-detti che permettono così di leggere tra le righe delle opere i lacerti di un mondo ancora possibile. E Mannarino sa governare con destrezza esemplare la difficile arte di ‘scrittura del vuoto’ che ne deriva, lasciando così un posto a chi sta dall’altra parte, la parte del fruitore come la parte del tema trattato. Aculei, bitorzoli, steli, fori, sono cifre quindi di un repertorio che non è banalmente post-umano, ma infra-categoriale, e che attraversa tutti i regni, senza sostare in nessuno di essi, permettendo a ciascuno di riecheggiare in ogni altro – che si tratti appunto dell’artigianato e dell’arte, del trovato e dell’inventato, del naturale e dell’artificiale, del letterale e del metaforico, dimensioni rese tutte rigorosamente tra di loro indiscernibili. L’arte deve perdere ancora, e per l’ennesima volta, la sua aura iridescente ma ormai senescente, e deve farlo a favore di un rinnovato rapporto con il mondo, con il fuori, con la vita e la sua prosa innominabile. Non dal centro alla periferia è allora il movimento da seguire, ma quello testardamente contrario: dalla periferia al centro, sempre. Un corteo di dramatis personæ fa così il suo esordio sul proscenio. Ciascun oggetto è un personaggio, una storia a sua volta di un collettivo determinato; ogni opera è un romanzo sociale, a suo modo. E tutto ciò accade sotto l’egida di uno humor, particolarmente evidente nei titoli, sempre delicato, non forzatamente trasgressivo, non distanziante, non banalmente ironico, insomma, ma accogliente, in ultima analisi sapiente. In una parola, genuinamente desacralizzante. La percezione della realtà vacilla in questo modo nella sua presunta incontrovertibilità, per ritrovarsi infine sul ciglio della propria rigenerazione: l’oggetto somiglia a ciò che dice di somigliare, ma lo fa con mezzi e forme fondamentalmente inaspettati.

 

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