Le opere in mostra sono tutte accomunate dal tema centrale del bianco e del nero: sculture, pitture, disegni e tele ricamate che si mescolano in una dimensione bicolore in grado di suscitare stupore e riflessione.
Da sempre nell’arte il bianco ed il nero, che sono al contempo l’assenza e la somma di tutti i colori, hanno il potere di generare un’immediata tensione, di creare disorientamento, di comunicare senza necessità di ulteriori intermediari che non siano loro stessi. Nonostante la loro apparente semplicità, riempiono lo spazio e comunicano con lo spettatore. Hanno la capacità di contenere tra loro l’intero universo, come l’alfa e l’omega. Sono gli eccessi di uno stesso mondo.
In questa mostra ogni artista espone un’opera significativa ed emblematica del proprio lavoro.
“Bamboo forest” (2015) è l’opera in mostra di Julian Opie (1968), un paesaggio in bianco e nero stilizzato realizzato attraverso la sovrapposizione di varie lastre in plexiglass. Un lavoro dall’inconfondibile tratto stilistico dell’artista.
“Idea fissa / Obsession” (1981) di Franco Dellerba (1949), un cavallo a dondolo decorato con luminarie, è un richiamo alla tradizione popolare pugliese. L’intento dell’artista è quello di sublimare gli oggetti quotidiani, in questo caso un giocattolo, rendendoli onirici con l’utilizzo delle luci.
Un grande carbone su cartone (datato 2012) di Nunzio (1954), con le sue geometrie crescenti e concatenate, occupa una delle pareti della sala principale.
L’unica opera fotografica è quella di Mario Giacomelli (1925-2000) “Pretini” (1961/63) in cui le siluette umane si tramutano in segni, diventando esempio di astrattismo nella fotografia.
Dell’artista Carla Accardi (1924-2014) vengono esposte due opere: un’opera storica degli anni ’60 ed una più recente (2009). La prima è un acrilico su tela di dimensioni contenute e pubblicata in catalogo, mentre la seconda è un’opera in cui il bianco ed il nero e la tela grezza si fondono creando i tipici motivi astratti dell’artista.
Presente anche un lavoro su carta di Alighiero Boetti (1940-1994), artista che ha fatto parte del gruppo dell’Arte Povera.
Due gouache su carta del 2005 di Sol Lewitt (1928-2007) si integrano nella mostra grazie alla professionale combinazione dei colori bianco, nero e grigio; pennellate che sovrapponendosi con un moto ondulatorio creano variazioni cromatiche di varie intensità.
“Family thoughts”, “Fuori di testa” e “No problem” (tutte 2016/18), le tre telette ricamate a mano di Daniel Gonzalez (1963), sono invece opere divertenti e allo stesso tempo provocatorie che giocano con la contemporaneità.
Giuseppe Pulvirenti (1956), con la sua attenzione verso i materiali assemblati e le forme più semplici, espone una delle sue sculture in bronzo. Un’arte che ha funzione contemplativa e non pratica.
Trovano il loro spazio in galleria anche le otto grafiche di Cy Twombly (1928-2011) “Odi di Orazio” (1968), serigrafie su carta nera in edizione estremamente limitata.
Nella mostra una scultura di Enrico Castellani (1930-2017) realizzata in polvere di resina e marmo in argento ed una di Giacinto Cerone (1954-2004) in ceramica bianca, entrambe opere uniche che comunicano fra loro fondendosi perfettamente con l’allestimento, quasi a diventare parte integrante dello spazio.
L’indagine sulle capacità auto-generative della forma è stato l’elemento fondamentale per la realizzazione dei due lavori di Daniele d’Acquisto (1978) “Forming #1” e “Forming #3” (entrambe datate 2015). Stampe ai raggi UV dirette su alluminio Dibond che appaiono come tridimensionali.
Due sono anche le opere di Piero Dorazio (1927-2005): due opere senza titolo degli anni ’60 che sono differenti e complementari allo stesso tempo. Un olio su carta bianca e, viceversa, un reticolato bianco su nero.
Tristano di Robilant (1964) espone “Tavole Caldarelli”, due bassorilievi in terracotta dipinta a mano, uno bianco e uno nero, con incisi versi e frammenti di poesie di Caldarelli.
Due studi per l’installazione della mostra del 2006 al portico d’Ottavia sono le opere scelte di Jannis Kounellis (1936-2017). Entrambi seguono la tecnica del catrame su carta, una riflessione sulla pittura e sul suo peso inteso sia fisicamente che metaforicamente.
Matteo Montani (1972) con la sua opera sceglie di utilizzare le possibilità della carta abrasiva, quale supporto privilegiato, su cui condurre liberamente il colore ad olio per far emergere paesaggi interiori intensi, poetici e fluttuanti, sempre in bilico tra un altrove e un dentro, tra microcosmi e distese siderali.
Infine, un’opera di Peter Schuyff (1958) tempera su tavola quadrata del 1991 che indaga la poetica della geometria. Una ripetizione di forme crea un contrasto stimolante tra uniformità e variazione.