Carlo Gallerati è lieto di curare e presentare Maschere, una mostra personale di Benedetta Cari.
Sono ancora le gallerie le attrici principali nell’evoluzione e nella promozione dell’arte attuale? Chiaramente sì, nonostante tutto. Il copione del teatro globale detta a ritmo costante scenari di fragilità e pericolo, ma l’autonomia delle vedute e del pensiero individuali si riscopre ogni volta confermata, confortata e sospinta dall’energia visionaria degli artisti. E più la proposta è smisurata, più deve essere feroce la selezione: come quella che ha condotto me a scegliere per questa mostra – la centesima personale nella storia della galleria – alcune opere di Benedetta Cari. Le Maschere sono fotografie a sviluppo istantaneo – Polaroid (quindi pezzi unici 10,7 x 8,8) – che ritraggono figure di giovani donne variamente atteggiate in ambientazioni di interni oppure su sfondi di tonalità compatte. Per intero o tagliate; in luce morbida o aggressiva; spesso col viso protagonista, non sempre con lo sguardo diretto. Malinconiche sì, infelici no, pensose forse. Svestite ma non nude. Solitarie. Niente di nuovo, si direbbe. Eppure qualcosa di diverso da quello che l’umano voyeurismo va di regola trovando nella gentilezza delle pose femminili v’è. Per me almeno, ma credo anche per altri e per altre. Non è una questione di sensibilità, ma di pazienza: sensibili lo siamo tutti; soltanto, ci guidano tempi mutevoli nell’attenzione e nella concentrazione. Se riuscissimo a osservare le singole Maschere per pochi secondi in più di quanti il nostro istinto decreti sufficienti, quel qualcosa di diverso ci affiorerebbe nella sua verità. Si tratta del conflitto irrisolto, in genere taciuto e tuttavia onnipresente, tra l’adesso e il mai più. Schermato qui dalla promessa di bellezza mantenibile grazie all’emulsione chimica, fa capolino in fondo come ineluttabilmente selvaggio, sconnesso, sporto fino ai margini urlati dello smodato. Allora è un lavoro d’equilibrio, quello della fotografa: la natura artistica della sua comunicazione sta nella delicatezza, nell’alludere al nodo tremante in lei che scatta e in noi spettatori senza però smascherarlo. Sollecita amabilmente, Benedetta, le nostre intenzioni di fermarci e di riflettere: ci invita a ricordare che quegli urli selvaggi ce li abbiamo dentro, ma vuole proteggerci dal doverli sentire. (Carlo Gallerati)