La digitalizzazione intensiva inserita nel sistema Arte impone grandi cambiamenti organizzativi e concettuali che modificano a fondo il dispositivo di esposizione. Fino a poco fa la tecnologia numerica era un appoggio, come una protesi che offriva una maggior visibilità di un oggetto concreto. Mese dopo mese, anno dopo anno, ha preso più importanza che mai ed è diventata la finalità stessa dell’opera, ossia una smaterializzazione dell’oggetto con un potenziale riproduttivo infinito, con un costo pari al nulla. Un tale processo annulla completamente l’Aura di un’opera, riducendo il confronto con lo spettatore alla mera rappresentazione dell’opera stessa. La digitalizzazione è riuscita ad imporre al sistema arte una perdita totale di legittimità, il tutto con il consenso dell’ambiente nella sua quasi totalità. Questa corsa sfrenata alla visibilità ha annichilito una caratteristica profonda del ruolo dell’artista, requisendogli il monopolio sulla produzione d’immagini, capovolgendo, anzi, la situazione in una forma di grande “copia/incolla” nella quale non si capisce più chi è l’originale e chi il falso. Il più grande problema è l’omogeneizzazione del discorso in questo “gran teatro di pazzi” che è diventata la vita contemporanea.
L’opera dematerializzata è traslocata in un non-luogo, sommando un calco sul piano della raffigurazione del reale, come se l’arte dovesse illustrare la copia della copia di se stessa, essendo, quest’ultima, una rappresentazione del reale, una sorta di superamento ascendente della realtà. Un’azione che la distacca completamente da qualsiasi critica, essendo diventata essa stessa il risultato di una trascendenza semiologica; L’Arte È! Tale statuto la protegge tramite un auto-legittimazione, priva di dialogo e di confronto, priva anche di una possibile via di uscita. L’arte con la digitalizzazione ha perso la sua ragion d’essere, in un processo analogo a quello che ha interessato il mondo della pittura nell’ottocento, sopraffatta dalla fotografia. Diventa interessante vederne gli effetti, quello che rimane dopo aver rimosso ciò che era ancora tangibile nell’apparato di esposizione.
<=/SPAC3 è quindi pensata nell’ottica di un capovolgimento dell’oggetto mostra, integrato al non-luogo che ha sostituito lo spazio di espositivo; sottolineandone le caratteristiche come una lunga descrizione, la mostra racconta lo spazio nella sua immaterialità e, insieme, la sua concretezza semantica all’epoca della sua riproducibilità digitale. Sottraendo allo spazio lo statuto di veicolo di arte, è l’arte stessa che ne giustifica l’utilità. Un tale cambiamento di postura, ne rivela una totale illeggibilità del senso, rendendone astratta persino la sua definizione. È nella ricerca di un senso che il pubblico è invitato a spostarsi tra le opere. Queste dialogano tra di loro fluttuando nell’ambiente, immergendo lo spettatore in un grande limbo, alla ricerca ossessiva di un filo logico. Ma nella destrutturazione del discorso, le opere esistono da sole, obbligando il fruitore a navigare nell’incognito.