Marco Sauro - Tappe

Mostra personale di dipinti acilico su tela che segnano tappe della memoria.

Marco Sauro -

Marco Sauro - "La Luce Parla", acrilico su tela, cm. 70x100


 

La Galleria della Tartaruga ospita nuovamente, dopo una pausa di oltre dieci anni, una mostra personale di Marco Sauro, pittore proveniente dal mondo della grafica e originalissimo nella composizione delle sue opere.

Per comprendere la pittura di Marco Sauro è essenziale leggere alcuni passi salienti della presentazione in catalogo dello storico dell’arte Tomaso Montanari:

“I luoghi, i territori, gli oggetti sono testimoni e custodi del tempo – scrive Sauro –. Bisogna saperli ascoltare, osservare, rispettare». E i suoi quadri, le ‘tappe’ del suo viaggio, sono altrettanti tentativi di imprigionare quei luoghi e quei territori: un tentativo riuscito, prima ancora che sul piano artistico, su quello spirituale.

Vita e anima dei luoghi: quasi a scoprirne il genio, l’identità unica, profonda e irriducibile. Ma anche, inestricabilmente, vita e anima di coloro che li vivono, o che li visitano, accogliendoli nella propria vita materiale e spirituale.

E poi c’è, quasi in ogni quadro, l’esplicitazione della tavolozza dei colori: un campionario, una scala che dichiara gli ingredienti, una ricetta, uno schema di montaggio. O, meglio: le istruzioni per un ri-montaggio. Per sapere – anche tra tanti anni – quali colori, quali sapori, quali odori rievocare, rivedere, riassaporare nella memoria: proprio come era capitato a Camus.

E infine l’aspetto più ovvio, ma paradossalmente meno evidente per chi veda questi quadri per la prima volta: le iscrizioni. Le lunghe inserzioni manoscritte: belle come le iscrizioni cufiche nelle aureole dei santi di Gentile da Fabriano, ma, al contrario di quelle, programmaticamente illeggibili. Parole, annotazioni, appunti che ci fanno capire che stiamo sfogliando le pagine colorate di un taccuino: monumentale, e insieme privatissimo.

Mettere in ordine, dunque: fissare nel segno, e nel colore. Per organizzare la memoria, certo. Ma anche per oggettivare, per tirare fuori, per non dover tenere tutto dentro.

Per riuscire a dimenticare, sì: ma sapendo di poter poi recuperare quella memoria, riattivare una sensazione, rivivere un’emozione.

In un passo celebre del Giardino dei Finzi Contini, Giorgio Bassani fa raccontare al protagonista: «Essendomi capitato di leggere in uno dei taccuini stendhaliani queste parole isolate: All lost, nothing lost, di colpo, come per miracolo mi ero sentito libero, guarito». Arriva dunque da altri taccuini – quelli di Stendhal – la morale di ogni lungo viaggio che ormai abbiamo finito, e solo apparentemente dimenticato: quando tutto è perduto, nulla va perso. Ed è allora che ci sentiamo liberi. Che ci sentiamo guariti.”